In italiano non usiamo, nello scritto, mettere gli accenti sulle lettere; è pratica comune farlo quando un accento cambia il significato della parola, cosicché un "pero" non diventi un "però", un verbo non si trasformi in una congiunzione e le parole, che necessitano di accento, non suonino ridicole.
A volte un accento, seminato secondo le regole del parlato dove si è cresciuti, ci aiuta a capire da che regione d'Italia viene il nostro interlocutore; se "vetro" diventa "vétro" e "pesca" viene pronunciata "pésca", non muore nessuno, il significato della parola è salvo e nessuna lucciola è stata mutata in lanterna.
Alcune parole mantengono la stessa grafia ma hanno più di un significato, come la "pesca" di prima, e a volte, come la viola del titolo, hanno le stesse lettere, più significati e almeno uno è determinato dalla posizione di un accento; un po' come il però che privo di accento cambia in pero e butta nel ridicolo la frase nella quale questo accade.
Queste parole, chiamate omografe, vengono sempre scritte senza accento perché il contesto ci fa capire il significato di riferimento, ma nel parlato gli accenti ci sono tutti; altrimenti "leggère piume" può diventare "piumomanzia".
"Viola" ha numerosi significati: è il colore, il fiore e lo strumento ad arco; mentre "vìola" è un verbo (voce del verbo "violare") e se quando parlo dico che "questa pratica viola la legge europea" tutto il melodramma della dichiarazione va a pumitrozzole (prendo in prestito un termine da Giuda).
Cari residenti di Montecitorio, Palazzo Madama e affini, prima di farci immaginare schiere di cacciatori che tinteggiano di viola le proprietà altrui pensate all'accento, poverino, e magari fatevi anche, visto che vi paghiamo profumatamente, un corso di dizione... e dalla via che siete sulle spese, ché tanto è pecunia nostra, anche un ripasso di storia sarebbe gradito.
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